La trama
In piazza Garibaldi a Palermo, Salvatore Colasberna, presidente dell’impresa edile Santa Fara, viene ucciso mentre sale sul bus. Il venditore di panelle che ogni giorno si mette in piazza a vendere i suoi prodotti e tutti i passeggeri, di nascosto cominciano ad andare via e all’arrivo dei carabinieri nell’autobus restano solo il conducente e colui che vende i biglietti e la piazza è vuota. Nessuno ricorda chi siano i passeggeri presenti sull’autobus, ma un carabiniere riesce invece a trovare il panellaro che nel frattempo si era spostato davanti alla scuola elementare.
Il venditore viene portato in commissariato dal maresciallo Arturo Ferlisi per interrogarlo sulla vicenda. Dopo ore di interrogatorio, finalmente il venditore di panelle ricorda di aver udito due spari all’angolo tra piazza Garibaldi e via Cavour intorno alle sei e che in particolare, questi spari provenissero da un sacco di carbone che era vicino alla chiesa.
Le indagini passano poi sotto la responsabilità del capitano Bellodi, ex partigiano di Parma, un uomo dai giusti valori che non sopporta l’omertà siciliana verso la mafia. A causa delle indagini del capitano che pian piano portano a svelare la verità, e i cui gli indizi proponevano l’ipotesi di un omicidio associato alla mafia, a Roma una persona con molto potere chiede ad un onorevole il trasferimento per il Capitano.
Quest’ultimo interroga anche un suo conoscente, Calogero Dibella detto il Parrinieddu, un volto noto alla mafia. Nonostante le varie bugie e le false piste suggerite da Parrinieddu, il capitano Bellodi riesce a risalire a Rosario Pizzuco il possibile mandante dell’omidicidio di Colasberna.
Con l’aiuto del maresciallo, Bellodi riesce a risalire al nome del possibile assassino, un certo Zicchinetta (Diego Marchica). Studiando il suo fascicolo, il capitano scopre che Marchica è un noto sicario, già condannato per altri reati ma scagionato per insufficienza delle prove. Inoltre scopre i legami che intercorrono tra l’assassino e don Calogero Guicciardo e l'onorevole Livigni grazie ad una foto.
Parrineddu viene ucciso, ma lascia una testimonianza prima di morire che permette al capitano di ottenere un interrogatorio per Marchica, Pizzuco e don Mariano Arena. Durante l'interrogatorio non si arriva a nessuna conclusione, ma Sciascia in questa occasione fa pronunciare a don Mariano una frase che divenne idiomatica nel mondo mafioso: “quaquaraquà”.
Il caso diventa molto seguito e pubblicizzato dai giornali, visto il coinvolgimento del ministro Mancuso poiché ritratto in diverse foto con Arena. Ciò scatena un dibattito politico con la partecipazione di parlamentari e due mafiosi anonimi.
Bellodi fa rientro a Parma in famiglia per qualche settimana e apprende dai giornali che chiese di farsi spedire dalla Sicilia, che le prove erano state tutte confutate e smantellate da un alibi molto solido di Marchica, sicuramente costruito e architettato da politici. Così Arena viene scarcerato e viene dichiarato colpevole l’amante della moglie di Colasberna.
Lo scopo: “L’avvertenza”
Nel 1972 Sciascia aggiunse all’edizione pubblicata da Einaudi l’Avvertenza nella quale descrive come ancora non fosse riconosciuta l’esistenza della mafia nonostante le varie prove e i documenti esistenti.
Non esisteva ancora nessun testo che potesse spiegare i meccanismi mafiosi, le organizzazioni criminali e le loro attività, ma solo una commedia in dialetto "I mafiusi de la Vicarìa" e un testo teatrale "Mafia" che però raccontavano solo l'impatto che questo fenomeno avesse sulla borghesia.
Quindi lo scopo di quest’opera di Sciascia fu quello di scrivere un racconto basato su vere vicende, che mettesse lo Stato a conoscenza dell’esistenza della mafia e degli effetti sul Paese. Attraverso la trama di questo romanzo Sciascia sperava che la problematica venisse compresa e potesse avere rilevanza politica e pubblica.